Tra i commenti comparsi sotto un articolo di cronaca regionale, ne ho letto uno che ritengo significativo riportare integralmente, perché non è un eccesso isolato, ma un condensato di dinamiche psichiche e culturali oggi diffuse:
“Fosse per me, la giustizia me la facevo io. Li andavo a prendere uno a uno. I ragazzi non si toccano. Li porterei in mezzo ai porci, farli divorare uno a uno.”
Questo commento non colpisce solo per la violenza del linguaggio, ma per la struttura del pensiero che lo sostiene. In poche righe convivono affermazioni che si escludono a vicenda: la proclamazione di un principio di tutela dell’infanzia e, immediatamente dopo, l’elaborazione fantasmatica di una violenza estrema, metodica, reiterata, rivolta proprio contro ragazzi minorenni.
Dal punto di vista clinico, non siamo di fronte a una semplice contraddizione logica, ma a una frattura della coscienza morale. Il pensiero non riesce più a tenere insieme principio, limite e responsabilità. La violenza non viene riconosciuta come tale, ma viene resa accettabile attraverso una giustificazione emotiva: me la farei da sola la giustizia. È qui che il confine si spezza.
La giustizia, infatti, implica sempre una rinuncia: rinuncia all’agito immediato, rinuncia alla vendetta, rinuncia alla distruzione dell’altro. Nel commento citato, questa rinuncia non è presente. Al contrario, emerge una fantasia di onnipotenza punitiva, in cui il soggetto si attribuisce il diritto di decidere chi merita di vivere, chi deve essere annientato e in che modo.
L’immagine dei ragazzi “divorati dai maiali” non è secondaria né casuale. È un’immagine di de-umanizzazione radicale, in cui l’altro non è più persona, ma scarto da eliminare. Questo tipo di rappresentazione mentale appartiene a una violenza arcaica, pre-giuridica, in cui il corpo dell’altro diventa il luogo su cui scaricare l’angoscia, la rabbia e il senso di impotenza.
È qui che il discorso si fa ancora più inquietante: una violenza di questo tipo non è solo individuale, ma culturalmente connotata. Rendere pensabile una “giustizia” fatta di rapimento, segregazione e distruzione del corpo significa rendere implicitamente legittima una logica mafiosa, in cui la legge viene sostituita dalla forza, il diritto dal dominio, il limite dall’annientamento. Non è un caso che la violenza mafiosa passi sempre attraverso la disumanizzazione della vittima.
I ragazzi che hanno commesso un atto di bullismo grave devono risponderne. Ma restano ragazzi, in una fase evolutiva in cui l’aggressività, per quanto violenta, non coincide con una condanna definitiva della persona. Quando un adulto non riesce più a distinguere l’atto dal soggetto, la responsabilità dalla cancellazione dell’altro, si verifica un cedimento della funzione adulta.
Ed è qui il punto centrale: il problema non riguarda solo i minori che hanno agito violenza, ma la qualità del pensiero adulto che li circonda. Se l’adulto, di fronte al male, non riesce a mantenere attiva la capacità di pensare, di porre limiti, di differenziare, allora non svolge più una funzione educativa, ma diventa parte dello stesso circuito violento. La violenza non si trasmette solo attraverso i gesti, ma attraverso ciò che diventa dicibile, immaginabile, legittimabile. Quando un adulto afferma senza esitazione che “li farebbe divorare”, sta dicendo che esistono situazioni in cui l’umanità può essere sospesa. È questo passaggio, prima ancora del crimine, che dovrebbe interrogarci profondamente.
Educare all’umanità oggi significa, prima di tutto, preservare la capacità di pensare nei momenti di maggiore attivazione emotiva. Non si tratta di negare l’indignazione, né di minimizzare la gravità dei comportamenti violenti, ma di impedire che l’emozione prenda il posto del giudizio. Quando la violenza viene pensata come una soluzione possibile, anche solo a livello verbale o immaginativo, il pensiero abdica alla sua funzione di limite. Difendere il confine tra giustizia e vendetta significa mantenere attiva una distinzione fondamentale: la giustizia si fonda sulla responsabilità, sulla proporzione e sulla tutela della dignità umana, mentre la vendetta risponde a una logica di scarica, in cui l’altro diventa il luogo su cui depositare rabbia e frustrazione. Quando questa distinzione si indebolisce, la punizione smette di avere una funzione educativa e assume una valenza distruttiva.
Allo stesso modo, la fermezza educativa non coincide con l’annientamento dell’altro. Essere fermi significa porre limiti chiari, assumersi la responsabilità di sanzionare e contenere, senza mai cancellare la possibilità di recupero. La barbarie inizia proprio quando questa possibilità viene negata, quando l’altro non è più considerato un soggetto, ma un problema da eliminare. Quando un adulto non riesce più a sostenere queste distinzioni, non si verifica solo un fallimento educativo nei confronti dei ragazzi coinvolti. Si assiste a una regressione della funzione adulta, che perde la capacità di mediare tra emozione e pensiero, tra impulso e norma. In questo senso, il rischio non è soltanto quello di “perdere” ragazzi problematici, ma di compromettere il ruolo stesso dell’adulto come garante del limite, della legge e della trasmissione simbolica.

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